MILANO CALIBRO 9

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REGIA: Fernando Di Leo
CAST: Gastone Moschin, Mario Adorf, Barbara Bouchet,
G Frank Wolff, Philippe Leroy, Lionel Stander
1972 Italia 101m
SOGGETTO: Tratto dal romanzo postumo
Stazione Centrale ammazzare subito
di Giorgio Scerbanenco
POLIZIESCO




Fabbione (in Dottor Kurando) 

Chi prende una cotta micidiale per il cinema italiano di genere, prima o poi deve fare i conti col carrozzone di filmetti confezionati a caterve nei lontani anni ’70 (spesso con nomi di registi sotto pseudonimo e con trovate pubblicitarie d’effetto più belle dei film stessi). E la tenacia di scoprire vecchie pellicole a tutti i costi, può tramutarsi ben presto in un calvario; perché rimedia videocassette impossibili di qua, visiona titoli improbabili di là, alla fine la prevalenza di boiate d’antan convincerebbe chiunque, dotato di autonomia critica anche spicciola, di ritenere quel sopravvalutato periodo storico più un fenomeno d’opportunismo di mercato (‘Addò s' magna, evviva la Spagna!’ suggeriva un proverbio ortonese) che un sentimento comune di ricerca, onestà intellettuale e sperimentazione.
Prendiamo il Dario Argento ancora in fasce, con la sua cesta irrequieta di mosche, uccelli e gatti. Trattandosi di splendido cinema seminale e innovativo (più o meno riuscito) ha dato il via ad un’esplosione di imitazioni grossolane, noiose, sovrastimate, dove nel titolo c’infilavano di prepotenza un animale o un insetto. Era più forte di loro (vedi La coda dello scorpione, Una farfalla con le ali insanguinate, L’iguana dalla lingua di fuoco, La volpe dalla coda di velluto, Il gatto dagli occhi di giada o Il forbiciattolo zigano…no dai, quest'ultimo l’ho inventato io)! Robetta discreta o pessima se paragonata al retaggio argentiano con cui ogni bravo autore dovrebbe fare i conti (Dario ha dovuto farli con Mario Bava, dicono. E almeno nella prima parte della sua carriera pare abbia fruttato al meglio gli insegnamenti). Quindi, bisogna stare attenti quando si decide di barcamenarsi fra la melma dei lungometraggi misconosciuti.
“Sì, vabbè” mi si potrebbe obiettare “Se devo mettermi sulle tracce di autori mai sentiti prima d’ora, farei in modo di documentarmi a fondo”. “E faresti bene” risponderei io “ma tieniti lontano da quello sterminato stuolo di critici-appassionati-nerd rinchiusi in se stessi, muniti di un pensiero unico, intolleranti di fronte a valutazioni o parametri di giudizio diversi dai loro. Non sia mai! Obiettività zero, cecità diecimila! Si farebbero prendere a calci nel culo pur di non ammettere l’esagerato rumore che alimentano intorno a schifi immondi spacciati per opere d’arte! Offrendo un pessimo servizio a chi è alla ricerca d’informazioni concrete”.
Ultima considerazione, stavolta nei confronti della cosiddetta intellighenzia che dall’alto pare decidere ogni mossa. Direi che è ora di smetterla con l’equazione Film d’Autore uguale Serie A e film di Genere uguale Serie B (e questo vale per ogni forma creativa, particolarmente la letteratura)! Dipendesse da me, ritoccherei la loro sofisticata matematica, relegando in Serie B tutti quei film pretenziosi e insignificanti che trasformano i depositi in cui giacciono in mortiferi cimiteri e promuovendo in serie A tutte quelle opere disposte a mettersi in gioco, a trasmettere un messaggio, con tecnica, perizia e cognizione di causa, che siano produzioni d’autore, di genere o commerciali. Non esiste alcuna differenza. E mi fermo qui. Affermando col sorriso che tutta 'sta tiritera senza capo né coda me l’ha innescata proprio lo straordinario MILANO CALIBRO 9!
Monumentale prova di Fernando Di Leo. Trama scura come polvere da sparo. Denuncia sociale incisiva e coraggiosa. Personaggi granitici, rifiniti a colpi di mazzuola. Meravigliosi Philippe Leroy (Kino), Mario Adorf (Il meschino Rocco, padrone assoluto nella sequenza finale) e l’ipnotico Gastone Moschin (Ugo Piazza), sfuggente sino all’esplosivo epilogo ed immortalato in ogni ben di dio d’inquadratura. Persino il capoluogo lombardo, perennemente umbratile e monocorde, lascia un’impronta meridionale/malavitosa significativa. Nulla d’aggiugere (ma in verità tantissimo altro da dire).

A proposito, tra le bufale poliziottesche non lasciatevi sfuggire MILANO ODIA: LA POLIZIA NON PUÒ SPARARE di Umberto Lenzi, con Henry Silva e un Tomas Milian da pelle d’oca. Altro che il Monnezza. Ed altra doverosa Stella d’Oro.



Filippone (in Porcoddena) 

Durante un passaggio di pacchi che “scottano”, un plico con 300.000 dollari destinato ad un boss malavitoso (Lionel Stander, che molti ricorderanno come il maggiordomo Max del telefilm ‘Cuore e batticuore’) scompare nel nulla. Tutti gli incaricati della consegna vengono eliminati tranne Ugo Piazza (Gastone Moschin), che una volta scontata una pena a tre anni di reclusione viene immediatamente contattato e tenuto sott’occhio dagli scagnozzi del boss, che crede fermamente che Piazza sia l’autore del furto.

Uno dei migliori esponenti del noir italiano, ‘Milano calibro 9’ (ispirato dall’omonimo libro di Scerbanenco) mantiene intatta ancora al giorno d’oggi tutta la sua efficacia, costruita su una trama secca, asciutta, portata in scena con rigore ed essenzialità ma mai povera di verve visiva. La forza del film di Fernando di Leo è poggiata sulle spalle di personaggi dai contorni ambigui, criminali dotati di una loro moralità ma pronti ad uccidere senza battere ciglio per gli scopi più biechi. Non ci sono né eroi né villain: quelli di ‘Milano calibro 9’ sono soltanto uomini (e donne) che hanno scelto una strada e che la percorrono fino in fondo, che questa piaccia o meno.

Anche se la loro inclusione nella sceneggiatura appare un po’ forzata, i commenti politici che escono dalla bocca del novello vice-commissario risultano tuttora coraggiosi e positivamente polemici, roba che se venisse detta in un film odierno (e che sottoscrivo parola per parola) scatenerebbe un putiferio infernale.

Ottima prova attoriale di Gastone Moschin, che si conferma un interprete estremamente versatile capace di passare da ruoli leggeri ad altri agli antipodi mantenendo la stessa incisività. Applausi incondizionati anche per Philippe Leroy (Kino), killer senza scrupoli disposto a mettersi contro il pericoloso boss pur di salvaguardare la sua dignità e quella dei suoi amici più cari. Barbara Bouchet è letteralmente da infarto: la sua bellezza ultraterrena, in questo caso, non è ai livelli inarrivabili di ‘Non si sevizia un paperino’, ma la scena nel night club con lei che balla coperta da un bikini di perline colorate è comunque da sangue al naso.

Se ‘Milano calibro 9’ può dirsi un film pienamente riuscito, però, è soprattutto grazie ad un insuperabile e strepitoso Mario Adorf, che rende al meglio - e in ogni occasione - un personaggio carico di sfumature (nonostante la brutalità di fondo che lo contraddistingue), un attore capace di tirar fuori dallo scagnozzo Rocco fino all’ultimo grammo di rabbia, di pericolosità e dell’onore che spetta a chi sa riconoscere il valore dell’avversario, e che ha saputo reggere il bellissimo ed amaro finale interamente sulle espressioni del suo volto (“Tu, uno come Ugo Piazza, non lo devi neanche toccare!!!”).