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mini minor

Banca (10/01)


Come ci entri la senti subito, quella sensazione di soave ostilità: le occhiate degli impiegati, lo sguardo torvo del vigilante parlano chiaro: "Che vuoi? Non vorrai mica mettere i tuoi quattro spicci di merda nella nostra Pregevole Istituzione e poi pretendere enormi privilegi come il bancomat o addirittura la carta di credito... E poi sei un po' strano...".
Non ce n'è: avere a che fare con le banche è sempre brutto, e lo è un po' di più se non ti presenti in giacca e cravatta; pare incredibile ma è (ancora) così. Cioè, puoi pure presentarti vestito "casual" (un termine che mi fa orrore duro), ma insomma non proprio scamuffo. Perché in banca vali quello che sembri, a meno che tu non abbia i miliardi (oppure debba dei miliardi alla banca, che per loro è uguale: sei prezioso), nel qual caso sei il signor cliente illustrissimo pure se ci vai in perizoma di lattuga.
Lascia perdere poi se invece del semplice conto corrente ti serve un fido, un prestito o simili: una giungla di requisiti pure per due lire, e se non hai lo stipendio non te lo danno, se non hai bot depositati per il controvalore del prestito non te lo danno, se non denunci 200 milioni l'anno non te lo danno... insomma: non te lo danno. Eppure, se loro ti prestano dei soldi, tu poi paghi degli interessi, e questo è uno dei modi in cui le banche dovrebbero guadagnarsi da vivere. Fattostà che - per qualche ragione - la banca quei soldi non li vuole.

Forse sarà perché qualche anno fa, qualcuno s'è accorto che alcune banche applicavano alla loro gentile clientela interessi definiti usurari, e con una legge (appunto la legge anti-usura) si è stabilito il tetto massimo di interessi applicabili. Ci sono stati molti ricorsi di gente dissanguata, ma alla fine dalle banche non hanno ottenuto altro che la promessa che non lo faranno più: e infatti non lo fanno, nel senso che se sei un indipendente qualsiasi che deve operarsi (oppure fare un micro-business di magliette) non ti danno una fava: per me è perché non possono mungerti come vorrebbero. Puoi sempre cambiare banca (cosa che io periodicamente faccio): in vent'anni non saprei nemmeno dire quale ho preferito: sono tutte uguali, come le majors.

Però ho sempre apprezzato il bancomat. Ha tutte le qualità umane che cerco in una banca; non gl'importa se mi sono appena alzato, non mi dà il saldo guardandomi come un pezzente, non mi scruta pensando che voglia rapinarlo (come fa ogni volta il vigilante) e invece mi tratta come il migliore dei clienti, svolgendo rapidamente la funzione primaria della banca: cacciare il mio cash.
Eppure periodicamente, per ragioni di lavoro (anche questo articolo, come quasi tutto il resto, verrà pagato con bonifico bancario) e di comodità (volendo fare acquisti in rete, la carta di credito è tuttora indispensabile), mi ritrovo a recitare questo assurdo copione:
cerco di scegliere una nuova banca: non chiedo niente. Non voglio offerte strepitose. Voglio uno che incassi i miei guadagni, che me li faccia prendere col bancomat e che paghi i conti della mia carta di credito. Basta. Mi guardo intorno e cerco di scegliere così, a naso. Poi entro, mi fa subito orrore ma cerco di resistere: "Tanto sono tutte uguali", mi dico. Un/a giovialone/a mi fa sedere e mi intorta per mezz'ora; io cerco di spiegargli cosa vorrei ma non c'è verso. Alla fine, per farlo/a smettere apro un conto, uno qualsiasi. Da quell'istante cambia tutto: gli impiegati a volte sono gentili, ma sempre impotenti, i direttori e capetti li scelgono diplomati all'Istituto Superiore di Antipatia e Supponenza. Non aspettano un attimo: dal giorno uno, tu sei zero.

Ma la sensazione più allucinata è sempre quella del primo versamento: mi odi, ti faccio schifo, sono indegno di qualsiasi fiducia e anzi oggetto di tutta una serie di precauzioni affinché non possa attentare al benessere della banca, hai orrore di tutto quello che rappresento, i miei soldi ti paiono pochi e guadagnati in modo dubbio ("ah, lei è un artista..."), e tutto questo è reciproco. Eppure ti sto affidando il mio preziosissimo cash... Pura follia.


© 2002 Sergio Messina