LA PIZZA VERACE STA BENE E VI SALUTA.




Nel 2017 l’UNESCO, con l’abituale intrigante definizione di Patrimonio Immateriale dell'Umanità, ha consacrato in aeternum l’Arte del pizzaiuolo napoletano.
Un riconoscimento che ha solcato nel profondo i paradigmi d’espansione del verbo campano.
Una crescita legittima e inarrestabile, che ha sostituito l’allargamento a ‘macchia di leopardo’ delle pizzerie napoletane in suolo italico in un assedio strutturato e capillare nelle più grandi metropoli del mondo.
Gli imperatori che hanno dato la carica all’inarrestabile avanzamento, sono gli stessi guru della pizza che abbiamo idolatrato in questa decina d’anni. Pura avanguardia, la cui dedizione nella tecnica, nell’inventiva e nella ricerca di materie prime nel territorio ha trasformato i loro nomi in veri e propri brand da esportare/replicare in qualunque località abitata.
L’intero settore ne ha senz’altro beneficiato, così come le opportunità formative e lavorative dei giovani pizzaioli in procinto di affrontare questa faticosa e articolata realtà.
Altro dato innegabile e piuttosto positivo (complice anche l’enorme mole d’informazioni scambiate tra utenti sui social network), è un marcato innalzamento della qualità media della verace napoletana - da nord a sud e isole - tanto che l’esclusiva produzione dei maestri/brand più blasonati, viene oggi “normalizzata” da un’infinità di gustosi lievitati provenienti da ogni dove.

Quanto fin qui descritto ha lo scopo analitico del resoconto; poi c’è il lato sentimentale della faccenda e allora le considerazioni imboccano tutt’altri percorsi. Vediamoli.

In ogni mestiere, l’Eccellenza richiede sacrificio e passione, ma l’anima del commercio resta il profitto. E quando l’ardore passionale flirta a lungo con l’affilata dottrina dell’imprenditoria, un impercettibile fuscello strutturale irrimediabilmente si spezza. Che in soldoni significa business e rendimento a volontà, a discapito del romantico candore alla base di ogni esordio lavorativo.

Altro aspetto. Il passaggio dell’attività artigianale a quella industriale mostra sempre un’ambivalenza di fondo: il prodotto tipico ben fatto ha diritto di oltrepassare i propri confini per farsi conoscere, ma la distribuzione imponente dello stesso ne annacqua la sua specificità.
Imbattersi nel romanesco Trapizzino del sommo Callegari fuori dalla Capitale, mette di buonumore per la validità dell’alimento, ma alla lunga e all’ennesima apertura è come imbattersi in un negozio Sephora nelle vie centrali di una qualunque città. È una legge di mercato e purtroppo non c’è rimedio.

Non ultimo, il credo ferreo dello stacanovista, che all’occorrenza pone la consueta enfasi tra lavoro e passione. Che per carità, ma una giornata produttiva - straordinari compresi - conta una decina d’ore e quando il proprio tempo s’assottiglia perché si hanno troppe grane a cui badare, anche le premure più ardimentose s’inabissano nei fondali marini. Pare quasi che la brama di fatturato (molto simile ai carboidrati, che più ne mangi e più ne vorresti mangiare) sia fatta apposta per non pensare allo slancio passionale, perché se uno si mette a farlo capisce di non essere ubiquo e di non poter controllare con dedizione l’intera filiera, quindi è costretto a delegare le competenze (per cui andava famoso e fiero), aumentando il personale, moltiplicando i forni per soddisfare la gigantesca mole di pizza giornaliera sfornata e azionando un po’ il pilota automatico, diciamocela tutta.

In questo parziale dietro le quinte sulla natura dello smercio (alzi la mano chi in affari non è senza peccato), Gambero Bronx dalle sue agguerrite lande non si pone dalla parte del sentimentalismo facilone, ma mira come un cecchino a tutti quei santuari e tempietti della pizza che oltre al ritorno economico ancora badano al rapporto con l’avventore.

Pertanto, organizzata una spedizione col fido Christian - consolidato socio d’esperte ingozzate - abbiamo raggiunto Caserta, da tempo gotha organolettico della verace al massimo della sua espressione.
Sarebbe stato logico triangolare rotte nei locali di culto più gettonati e invece l’istinto ha propeso per un rifugio insospettabile: Nello Pizzeria.
Un ordinario eremo con cibo d’asporto, prezzi popolari e adornato di pochi tavoli dentro e fuori.
Per sentito dire, conoscevamo solo i cavalli di battaglia di Nello, rappresentati da una studiata scelta fra panelli e schiacciate.
Ma quando c’è da fare sul serio, il test attendibile di routine del degustatore professionista è l’assaggio di una marinara fumante o tutt’al più di una margherita classica.
Nello ha dispensato il suo prodotto e ha oltrepassato le aspettative!
Pochi orpelli, armonia tra realizzazione, cottura e sapori, di una semplicità che tale non è quando si raggiungono certe vette.
Il Nostro, impegnato al forno, ha trovato il tempo di passare al tavolo.
Abbiamo discusso con fervore dell’universo pizza, citando nomi, realtà belle e meno belle, con una fame di confronto che farebbe bene all’umanità intera.
Un abitante della zona, si era seduto a qualche a metro da noi. Io pensavo fosse un habitué del quartiere con parecchio tempo a disposizione e invece era un cliente che in silenzio si era messo ad ascoltare la chiacchierata. Nello, accortosi dell’uomo gli ha chiesto: “Ma siete venuto a prendere la pizza?” e lui, con un sorriso affabile “No, so’ venuto a perde o’ tiempo! Ma non vi fermate ca' o' discorso interessa pure a me”.
Fantastico.




Non c’è altro da aggiungere.
Società e mercimonio muteranno all’infinito alla velocità di un click di mouse.
Eppure chi scrive crede ancora in un clamoroso ritorno alla dimensione dell’artigianato fatto per pochi, con cura e tanto amore (tiè!).

Bellecose.



Kurando.
Luglio 2021.

Giano Zafferallo. Gambero Bronx.


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